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Per un’ecologia del fuoco
Appunti intorno a "gli Elementi del Disastro" di Mattia Cleri Polidori

 



Di fronte agli scenari di devastazione, ingiustizia e saccheggio offerti dall’attuale orizzonte neoliberista, è facile lasciarsi contagiare dalle letture catastrofiche della fine annunciata. Le immagini degli incendi che si sono abbattuti in tutto il pianeta durante le stagioni estive degli ultimi anni – dal Canada all’Australia, dall’Oregon alla Siberia passando per il Mediterraneo – sembrano i ritratti di un’epoca, avviliscono ogni speranza residua. La comunità scientifica li ha definiti mega-fires, roghi cioè di proporzioni mai documentate prima d’ora, di natura colposa e dolosa nella quasi totalità dei casi, e che risultano incontrollabili per le tradizionali tecniche di contenimento a causa delle mutate condizioni ambientali imposte dal surriscaldamento globale.

Ma cosa rimane dopo un evento disastroso? Cosa viene generato? È possibile la vita tra le rovine? Come si sopravvive in un pianeta danneggiato senza dimenticare le perdite, avendo cura dei vivi e dei morti? E se la parola “disastro” si svuotasse del suo portato antropocentrico, di quella componente maligna e sventurata inscritta nella sua etimologia, per lasciare spazio ad altro? Sono queste alcune delle domande che le opere in mostra di Mattia Cleri Polidori rivolgono a chi le incontra. Il titolo del ciclo Gli elementi del disastro – che consta nella sua totalità di più di 50 opere – ha origini letterarie pregiate: così infatti nel 1953 Alvaro Mutis, scrittore e poeta colombiano di nascita ma vissuto in Messico, imprigionato per aver dato sostegno ai dissidenti del regime di Pinilla e amico del cantautore dal cuore anarchico Fabrizio De André, intitolò la sua seconda raccolta di poesie, quella in cui apparve per la prima volta il suo emblematico personaggio Maqroll el Gaviero, protagonista di molte narrazioni successive. Lo sguardo di Maqroll è quello di un eterno viaggiatore, un marinaio inquieto che dall’alto dei velieri scruta l’orizzonte annunciando terre o tempeste, ed è intriso di desesperanza (disperanza in italiano): un termine che suona come un ibrido di due opposti, un invito ad abitare il mondo con lucidità senza scadere in un nichilismo tetro. «Desesperanza», ebbe a dire l’autore, «significa non cadere nella trappola dell’attesa illusoria di “qualcosa” e credere invece nella possibilità di effimere, probabili gioie ».

Allo stesso modo le opere di Mattia Cleri Polidori testimoniano la possibilità di rimanere a contatto con la complessità del reale, di assumere la morte come elemento di coesistenza con la vita. Il disastro diviene allora un’occasione di trasformazione. I polloni crescono in fretta e il bosco incendiato arriva ad ospitare più specie del bosco originario. Il lutto, il nero dei corpi arborei carbonizzati, si ammanta delle velature dorate o argentee dei muschi e dei funghi, si dirama nei sentieri delle larve e degli altri insetti xilofagi che fanno del legno morto la loro dimora d’elezione. Con i suoi oggetti pittorici, in cui strato dopo strato vengono assemblate resine sintetiche, lattice, resti di corteccia, olii e acrilici, Mattia Cleri Polidori sembra rivolgere alla materia una smisurata preghiera perché riveli le sue forme. Basta entrare nella sua casa-studio-rifugio, immersa nel popoloso quartiere di San Giovanni a Roma, per rinvenire le tracce di questa ossessiva ricerca di rapporti aurei segreti, e notare la sua simpatia (che qualcuno definirebbe “ecosessuale”) per i muschi e i licheni, di cui raccoglie irrefrenabilmente e cataloga da anni esemplari delle più diverse specie, spesso indistinguibili tra loro ad occhi inesperti.

Nell’estate del 2017 una serie di incendi dolosi colpirono una vasta area della pineta di Castel Fusano, a Ostia, in un municipio romano allora commissariato per mafia. La vegetazione della macchia mediterranea – come è stato affermato in una recente pubblicazione, La resilienza del bosco – desidera ardentemente bruciare, si è sviluppata ed evoluta insieme alla fauna proprio per accogliere il fuoco, per rinnovarsi e rinforzarsi con le fiamme.

Spinti da istanze di ricerca diverse ma complementari, visitammo insieme questo paesaggio in transizione pochi giorni dopo l’ultimo incendio; la terra fumava ancora e restituiva alla vista bombole del gas, reti a molla, bottiglie di vetro annerite e targhe di automobili. L’incontro con uno degli alberi che vediamo in mostra, sdoppiato, inquadrato e ricomposto calco dopo calco, sfumatura dopo sfumatura, è avvenuto quel giorno.

Studiando le caratteristiche del legno carbonizzato e le strutture formali che emergono nella combustione, l’artista ha reso visibili le concatenazioni spazio-temporali dei processi chimici e l’azione sinergica dei microrganismi. L’agenzia degli elementi non-umani risulta così sottilmente rappresentata da innescare uno spaesamento in chi guarda, un’alterazione della percezione: “mi trovo davanti ad un oggetto naturale o culturale?” verrebbe da chiedersi. Qual è il confine tra natura e artificio, tra reale e rappresentazione? Soltanto sfiorando la superficie delle opere con un dito, o annusandole, ci si risveglia dal sogno: il rumore metallico prodotto, la consistenza gommosa e l’odore delle componenti chimiche ci ricordano che ciò che abbiamo chiamato “natura” non è altro che una combinazione di elementi, di corpi, di relazioni, di narrazioni e di immaginazioni. Ed è in quel momento, dopo una doccia fredda di lucidità, che torniamo a sentire, lì dove ci troviamo, nelle sale di una galleria d’arte, il rumore minuto delle creature nei buchi della corteccia, e lo “scricchiolio lieve dei legni”.

Valerio Sirna

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